Se lo Zen è stanco di essere giudicato, adesso dia una dimostrazione, prendendo le distanze. È chiaro che il rinomato quartiere di Palermo non è solo pistole e sirene. C’è chi lavora onestamente, chi tira su i figli tra mille ostacoli, chi ogni giorno lotta contro il peso di un’etichetta che sembra impossibile da staccare. Ma oggi tutto questo non basta più.
Dopo la strage di Monreale, colpisce l’assordante rumore della violenza, ma può fare ancor più male il silenzio. Peggio ancora, le parole sbagliate. I “forza” sotto le foto dell’indagato, le mani virtuali che applaudono chi è accusato di aver sparato su una folla. Non è solo incoscienza: è complicità morale. E se a parlare è solo questo lato del quartiere, allora a rappresentarlo sarà solo questo.
Lo Zen ha bisogno di uscire dal recinto dell’autodifesa e mettersi in cammino verso qualcosa di più difficile ma necessario: la responsabilità collettiva. Come ai tempi delle stragi, quando un’intera città prese le distanze dalla mafia. È tempo di distinguersi, non genericamente, ma in modo netto. Serve che le scuole, le associazioni, le madri, i padri, i ragazzi dicano chiaro e tondo da che parte stanno, magari scendendo in piazza per le strade del quartiere. E non per compiacere l’opinione pubblica, ma per dare un segnale: “Non siamo tutti così”.
Se la parte buona dello Zen non prende voce adesso, quando tre giovani sono morti per mano di altri giovani, allora sarà difficile spiegare domani che quel quartiere ha anche un’anima diversa. Girarsi dall’altra parte, fare finta di nulla, far emergere solo “la voce dei cattivi”, equivale ad essere complici. E nessuno potrà più lamentarsi delle facili etichette.