Sabato sera un giovane è stato accoltellato in via Chiavettieri, in piena movida, a pochi passi dai locali e dai turisti che affollano il centro storico. Un nuovo episodio di violenza che si aggiunge a una lunga sequenza di fatti di cronaca che stanno segnando l’autunno palermitano.
Appena ventiquattr’ore dopo, la polizia ha fermato a Ballarò un ragazzo di 14 anni, originario dello Zen, trovato con due pistole nel bauletto dello scooter. Un caso che riporta al centro dell’attenzione la facilità con cui le armi circolano tra giovanissimi, spesso provenienti da quartieri ad alta tensione sociale.
Solo pochi giorni prima, proprio allo Zen, un maxi blitz delle forze dell’ordine aveva portato al sequestro di armi, droga e munizioni, oltre a un rilevatore di microspie, e all’arresto di tre persone. In un’altra operazione, era stata rinvenuta una pistola calibro 38 pronta all’uso nascosta tra le cassette postali di un condominio.
Una sequenza di interventi che, messi insieme, restituisce l’immagine di una città sotto pressione, in cui la criminalità armata — giovanile e non solo — sembra ormai parte del paesaggio urbano.
Di fronte a questa escalation, il prefetto di Palermo ha introdotto nuove “zone rosse”, aree a controllo rafforzato con posti di blocco, presidi mobili e videosorveglianza potenziata. Una misura necessaria, ma non risolutiva. Perché, come dimostrano i fatti, basta spostarsi di qualche centinaio di metri per ritrovare lo stesso clima di tensione: Ballarò, la Vucciria, lo Zen, il Cep, Borgo Vecchio — ogni quartiere ha la sua emergenza.
La sicurezza a Palermo non può ridursi a una cartografia del rischio. Le zone rosse hanno un valore simbolico e operativo, ma rischiano di diventare un segnale di debolezza, più che di deterrenza, se non accompagnate da un piano di presenza stabile sul territorio, di controllo delle armi e di presidio civile costante. Ogni sequestro e ogni arresto sono successi investigativi, ma anche la prova di una vulnerabilità profonda, di un tessuto sociale sfilacciato dove la violenza trova terreno fertile.
Intanto, nelle case dei palermitani, cresce una paura silenziosa. Ci sono genitori che salutano i propri figli quando escono il sabato sera con la stessa angoscia di quelle madri che vedevano i figli partire per il fronte. Un nodo alla gola, un messaggio di troppo sul telefono che non arriva, una sirena in lontananza che basta a gelare il sangue. È questo, ormai, lo stato d’animo di una città che ha smarrito la sua serenità, dove la notte non è più sinonimo di libertà ma di rischio.
La città non può continuare a rincorrere l’allarme successivo. Serve una strategia strutturale sulla sicurezza, che non si esaurisca nei comunicati o nei piani d’emergenza: più intelligence, più coordinamento tra forze dell’ordine e magistratura, più investimenti nel controllo del territorio e nella prevenzione.
Perché una Palermo che ogni settimana scopre nuove armi, nuovi accoltellamenti e nuovi minori coinvolti nel crimine non è una città insicura per fatalità. È una città che ha smarrito il senso del proprio ordine. E se le “zone rosse” servono a ricordarcelo, allora è tempo che la politica e le istituzioni ne traggano finalmente una lezione: la sicurezza non si dichiara, si costruisce.




