Il silenzio di una comunità ferita si è fatto preghiera e lacrime nel giorno dell’addio a Sara Campanella, la giovane studentessa universitaria uccisa a soli 21 anni davanti allo stadio Celeste di Messina. Un femminicidio che ha sconvolto tutti, una tragedia che ha strappato via il sorriso, i sogni, il futuro di una ragazza che si stava per laureare in Tecniche di Laboratorio Biomedico. A toglierle la vita, con cinque coltellate, è stato un collega, Stefano Argentino, incapace di accettare il suo rifiuto.
Già all’ingresso di Misilmeri si leggono le parole di Sara che in questi giorni stanno facendo il giro del mondo: “Mi amo troppo per stare con chiunque”. Nei bar, per le strade, nei balconi è un grido unanime: “Sara vive”.

Durante i funerali celebrati a Misilmeri, suo paese natale, l’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice ha pronunciato parole cariche di dolore, rabbia e verità. «Siamo qui sconvolti. Senza parole. Dinnanzi al corpo di Sara. Corpo martoriato. Sacrificato. Vita che ci è stata rubata. Perché?», ha chiesto con voce rotta. «Ancora una volta, risuona un grido: perché questo strazio indicibile inflitto ai suoi genitori, al fratello, al fidanzato, agli amici, alla città intera?».
Lorefice ha parlato con forza e chiarezza: non si è trattato solo di un delitto individuale, ma del sintomo di un male profondo, collettivo, che attraversa il nostro tempo. «L’uomo – dice la Bibbia – ha due strade: quella della relazione e quella della violenza. Ma vediamo come la violenza abbia ancora distrutto la bellezza di Sara, la bellezza delle sue relazioni, la bellezza che lei aveva il compito di far crescere nel mondo».
Quelle coltellate, ha ricordato l’arcivescovo, non hanno solo spezzato un corpo giovane. Hanno mutilato l’intera società. «In questo corpo trafitto ci sembra che sia racchiuso il dolore di un mondo nel quale ancora domina la violenza. In particolare sulle donne».
Un’omelia che è stata anche un’accusa contro l’indifferenza, contro una cultura che ancora tollera – o peggio, giustifica – il possesso, la sopraffazione, la brutalità. «La violenza, ogni forma di violenza, per qualsiasi motivo si scateni, è sempre un fallimento che riguarda tutti».
Nel dolore della famiglia di Sara, nella rabbia dei suoi amici, nella dignità composta dei genitori che l’hanno salutata per l’ultima volta, c’è il grido di chi non vuole più contare vittime. C’è la speranza che la bellezza di Sara non sia stata uccisa invano, ma che diventi seme di cambiamento.
Perché a essere inaccettabile non è solo la morte di una ragazza, ma la cultura che l’ha resa possibile. La bara bianca che viene portata a spalla dai colleghi e dai familiari, mentre volano in cielo decine di palloncini bianchi, colorando il cielo azzurro da poco liberato dalle nuvole, è un colpo al cuore. Sara viene introdotta nel carro funebre, le lacrime e gli abbracci sono infiniti. “Sara vive”, gridano in tanti.
Misilmeri la saluta per sempre con un applauso scosciante. È morta una giovane di 21 anni, strappata con violenza agli affetti più cari. La voglia di cancellare tutta questa violenza, da parte di giovani e adulti, è viva. Non è una società ammalata quella in cui viviamo, il male è solo una minima parte. Questo dice la profonda commozione percepita oggi a Misilmeri, questo dicono gli occhi e l’indignazione dei presenti e i social. Un sentimento a cui bisogna dare fiato, linfa, fatti. Solo così si potrà affermare veramente che Sara vive, insieme a tutte quelle donne che non saranno state sacrificate invano.