Ero troppo piccolo per ricordarlo, ma mi raccontano che negli anni ‘80, a Palermo, le pallottole fischiavano in aria come arbitri impazziti senza VAR, come durante il Carnevale al Sambodromo di Rio de Janeiro. Vi era una guerra in corso. Ma non una di quelle convenzionali, perchè Palermo contravviene anche alla rigida logica del classico conflitto fatto da carri armati e contraeree. Siamo fatti così, di fronte alle regole, ci vengono degli sfoghi orticarioidi e non riusciamo a rispettare neanche le più basilari norme sulle conduzione tipo di una battaglia.
Era una guerra di mafia. E si sparava. Minchia signor tenente (come diceva buonanima di Giorgio Faletti) se si sparava. Proprio come durante una guerra. Personaggi eccellenti ed ignari civili di giorno in giorno finivano le proprie esistenze sotto quattro metri di terra per una montagna di merda che non risparmiava colpi e che sfoggiava un armamentario bellico da far impallidire il più ultraoltranzista degli adepti di Hamas o del battaglione Azov.
Ma oggi? Che succede oggi? Perchè – nonostante non sia in corso una faida fra clan – si spara fuori da una discoteca o lungo le strade illuminate a festa della movida della Palermobbene? Cosa ci siamo persi, anzi, dove ci siamo persi? Forse la spiegazione ce la potrebbero dare proprio quegli anni ‘80 del secolo scorso. Perchè, checchè se ne dica, il germe del metodo mafioso non è mai morto. Mai. Nè con l’arresto o la morte di “grandi firme”, nè con quelle manifestazioni spesso buone solo per la passerella di taluni. Nè, soprattutto, con l’autoincensamento di certuni a paladini di un’antimafia piena zeppa di parole ma vuota di azioni.
C’è qualcosa che manca, che non è stato coltivato e non è cresciuto. È l’albero della condivisione, della solidarietà (quella delle mani che si sporcano aiutando, non quella farlocca dei pandori e delle uova di Pasqua), dell’empatia.
Hanno deciso di abbandonare le periferie al loro destino, un destino fatto di illegalità dove minuscoli avamposti (scuole, parrocchie) urlano a squarciagola il disagio dei giovani.
Quegli stessi giovani, a loro volta, abbandonati ai loro tiktok, rincoglioniti da falsi dèi chiamati soldi, fama e successo e che hanno imparato che una posa al Grande Fratello è potenzialmente più remunerativa di una laurea in ingegneria.
Capiremo troppo tardi che questa società ha bisogno di essere rifondata su pilastri che trovano la loro culla in una semplice parola: umanità.
Ieri Aldo Naro, oggi Rosolino Celesia. Ragazzi. Avevano una vita davanti, gli resterà solo una lapide ed una foto. A noi, invece, resterà il tempo di asciugare le nostre lacrime sull’ampio velo dell’ipocrisia per poi tornare a curare il nostro orticello, sempre più convinti che il vicino non meriti nulla se non indifferenza, in loop, in un circolo vizioso, fino alla prossima vita spezzata.