Cambiano le piazze, cambiano i volti, ma il copione è sempre lo stesso: una rissa, qualche parola di troppo, poi i colpi di pistola. A Monreale come in via Spinuzza, due tragedie che a distanza di pochi mesi raccontano la stessa Palermo ferita, impaurita e smarrita.
In entrambi i casi, a sparare sono giovani dello Zen, cresciuti in un contesto di violenza normalizzata, dove la sopraffazione diventa linguaggio e l’arma un prolungamento dell’identità. A Monreale, nella notte tra il 26 e il 27 aprile, tre ragazzi sono stati uccisi in piazza Duomo da un gruppo di coetanei dopo un alterco banale, degenerato in una sparatoria.
Pochi mesi dopo, in pieno centro a Palermo, Paolo Taormina, 21 anni, è caduto davanti a un locale in via Spinuzza. Anche lì, una lite nata da futili motivi, e anche lì la mano di un giovane dello Zen, Gaetano Maranzano, che avrebbe sparato per “difendere l’onore” davanti agli amici.
Due episodi che si somigliano non solo nella dinamica, ma nella matrice simbolica: la cultura della violenza come affermazione, l’uso delle armi come linguaggio, i social come palcoscenico. Sia Maranzano che i protagonisti della strage di Monreale amavano mostrarsi online come personaggi da serie televisiva, tra citazioni di Gomorra e Il capo dei capi, con pose da boss e colonna sonora da malavita. Ragazzi che si sentono potenti perché hanno una pistola o qualche follower in più, senza rendersi conto che stanno imitando la caricatura di un mondo che li divora.
È la nuova gioventù mafiosa, senza organizzazione ma con la stessa estetica del potere: catene d’oro, tatuaggi, arroganza e un vuoto enorme dentro. Una gioventù che si muove tra la movida e i quartieri popolari, tra i bar del centro e le borgate, incapace di distinguere la virilità dalla violenza, il rispetto dalla paura.
E intanto, la città assiste a una deriva quotidiana. Le cronache recenti parlano di baby gang che aggrediscono passanti, autisti dell’Amat insultati e sputati in faccia, donne incinte prese di mira, cittadini comuni umiliati da adolescenti che scambiano la brutalità per coraggio. Una violenza diffusa, gratuita, che non nasce più da faide o da “codici d’onore”, ma dal nulla: dalla noia, dall’assenza di educazione, dal bisogno disperato di visibilità.
Oggi, dopo l’ennesimo omicidio, la popolazione chiede più sicurezza, qualcuno invoca addirittura l’intervento dell’esercito: proprio quell’esercito che, solo pochi giorni fa, era stato contestato in piazza Politeama da chi gridava contro la “militarizzazione dello spazio urbano”. Un paradosso che racconta più di tante analisi: prima si protesta contro i militari, poi si invocano per difendersi dai figli della stessa città.
Forse è il momento di guardarsi dentro e scegliere da che parte stare. Perché non si può chiedere sicurezza se non si rispetta l’autorità, non si può pretendere ordine se si disprezzano le regole. Il rispetto deve tornare a scuola, verso gli insegnanti, verso le istituzioni, verso gli uomini e le donne in divisa che ogni giorno rischiano la vita per difendere la nostra.
Palermo non può più permettersi di vivere tra la rassegnazione e l’indignazione a giorni alterni.
O si sceglie la legalità, o si sceglie il caos.