“U tagghiamu stu palluni?”: il calcio a Palermo anni ’80 e ’90

Quando non esistevano consolle, quando internet non era nemmeno immaginabile, quando l'unico vero gioco era il pallone e un angolo di marciapiede o una strada il campo

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Negli anni ’80 e ’90 a Palermo i ragazzi giocavano a calcio sui marciapiedi o in strada e c’erano delle regole standard ben precise, inviolabili in qualsiasi quartiere. Cominciamo dalla porta: lì ci andava il grasso di turno. Tranne in caso di rigore. In tale circostanza in porta andava quello che si sentiva più atletico. In difesa, invece, venivano schierati quelli considerati più scarsi.

E poi c’erano quelli bravi, quasi sempre in attacco o a centrocampo, mai nella stessa squadra, perché le formazioni dovevano essere equilibrate. Si faceva la “conta” e di solito a fare pari e dispari (i mia, i mia, i miiia) erano proprio i più forti che si auto nominavano capitani. Chi vinceva cominciava a scegliere. Rimanere ultimi era un disonore, perché questi erano considerati i più scarsi (a lui ce lo giochiamo per insalata).

La palla era quasi sempre un super santos, talvolta introdotta, da un esagono mancante, all’interno di un pallone di cuoio scorticato. Chi lo ha colpito di testa, soprattutto quando era bagnato dalla pioggia, ricorderà quanto facesse male. Ma nessuno lo ammetteva a quei tempi, perché sarebbe stato “sfottuto”.

Partite interminabili che iniziavano nel primo pomeriggio e finivano col buio. A meno che il proprietario del pallone non doveva tornare a casa. O perché i genitori non volevano che tornasse tardi oppure, ed era la motivazione più usuale, perché faceva lo “ziccuso”. (Non è gol? Non era fallo? Non mi hai passato la palla? E io me ne vado e mi porto il pallone). Succedeva anche che qualcuno, soprattutto portieri dei condomini o commercianti, venisse in strada infastidito dalla “vucciria” : “U tagghiamu stu palluni?”. Purtroppo il più delle volte faceva sul serio. E guai a dirlo ai padri perché ti davano il resto.

Non esisteva il fallo laterale e le porte erano delimitate da giubbotti, zaini o da un pietrone. La traversa era calcolata ad occhio e dipendeva anche dall’altezza di chi stava in porta.

Quando si era in procinto di andare via, anche se si stava sul 20 a 0, qualcuno diceva: “A chi segna vince”. Neanche a dirlo, quasi sempre l’ultimo gol lo faceva la squadra che era in svantaggio che esultava come se avesse vinto la coppa del mondo.

Difficile non trovare giocatori. C’erano talmente tanti adolescenti in strada che a volte si facevano due-tre squadre, avviando veri e propri tornei. (Mille lire l’uno e compriamo la coppa?). Solo in giornate particolari, quando pioveva, d’estate o in periodo di influenza, venivano a mancare i giocatori. Ma nel peggiore dei casi si giocava a porta romana o a muro Pelè.

Erano altri tempi, molto diversi da quelli di oggi. Un ginocchio sbucciato era una consuetudine, le scarpe da tennis bucate una costante. Si tornava a casa neri come il carbone e le mamme ti facevano spogliare nel pianerottolo per poi catapultarti nella doccia. Non c’erano Consolle e nemmeno cellulari, internet non era neanche qualcosa di immaginabile. L’unico vero gioco era il pallone e un piccolo spazio, anche un curvone di una strada in cui un portiere non riusciva a vedere quello dell’altra squadra, diventava il campo di calcio ideale. Altri tempi. Ma che tempi…