Viviamo nell’epoca del “ho letto solo il titolo, ma adesso vi dico la mia”. Non c’è notizia, tragedia o fatto di cronaca che possa sfuggire alla morsa del commentatore seriale da social. Non appena una vicenda viene pubblicata online — un incidente stradale, una scomparsa misteriosa, una morte improvvisa — ecco che si spalanca il sipario della più grande arena dell’opinione non richiesta: la sezione commenti.
Un’auto si ribalta alle tre di notte? “Aveva sicuramente bevuto“. Una donna scompare? “L’avrà ammazzata il fidanzato. Sicuro. Sempre così“. Un tizio muore a causa di un malore? “Era di certo vaccinato“. Un’intervista in cui il parente di una vittima non piange? “Troppo felice, qualcosa non quadra“. Non conoscono, ma diagnosticano. Non c’erano, ma ricostruiscono la scena del crimine con la precisione di CSI e la sensibilità di un tagliere di marmo.
Prendiamo il caso di Simona Cinà. Una storia dolorosa, intricata, ancora tutta da chiarire. Ma per alcuni è già risolta: “Era drogata.” “Sicuramente l’hanno violentata e poi gettata in piscina”. “L’ex fidanzato è strano, secondo me nasconde qualcosa”. Nessuna prova, nessun dato, ma tanta energia per lo sport che va di moda: digitare in maniera compulsiva e ossessiva qualcosa sulla tastiera, anche al costo di rendersi ridicoli o di beccare una denuncia. È il fascino perverso del processo nei commenti, dove giudice, giuria e pubblico ministero sono tutti racchiusi nel profilo di un tizio con la foto del cane o in una bio che recita “odio il politicamente corretto”.
È come se i social fossero diventati una gigantesca versione di Indovina Chi, solo che invece di cercare chi ha i baffi o porta il cappello, si punta il dito a caso: “Aveva il cellulare in mano”. “Sicuramente correva”. “Se l’è cercata”. Tutti esperti, tutti detective, tutti giudici e moralisti del giorno dopo. Tutti tuttologi.
La verità può aspettare, il pregiudizio no. E’ un “cogli l’attimo” prima che lo scrivano gli altri. Perché il linciaggio mediatico fa like, non può attendere. E guai a chiedere prudenza, rispetto, o silenzio. “Ho diritto di dire la mia! C’è libertà di parola”. Certo. Hai anche diritto di stare zitto, ma quello nessuno se lo ricorda mai. Senza dimenticare che, come affermava Martin Luter King, la libertà di un uomo finisce quando inizia quella degli altri.
Nessuno si cura del fatto che, mentre si ipotizzano complotti, si diffondono teorie da bar e si insinua il sospetto anche dove non c’è nulla, anche i familiari delle vittime leggono. E questo è il vero dramma di questa voglia di libertà che rafforza e rende sempre più attuale e veritiera una frase profetica di Umberto Eco: “I social network danno diritto di parola anche a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Questi però venivano subito messi a tacere, mentre oggi, sui social, questi imbecilli hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel”.