C’è stato un tempo in cui Palermo si fischiava da sola. Non perché avesse imparato l’autocritica, ma perché il disagio era così diffuso, così visibile, che non serviva un carro trionfale o un sindaco per sentirsi frustrati. Quel disagio era frutto della paura, dalla rassegnazione, amplificato dal vedere morti ammazzati ad ogni edizione del telegiornale, dal non sentirsi tutelati e protetti. La città sporca o l’acqua che non usciva dai rubinetti sembravano poca cosa rispetto alla prepotenza mafiosa, agli omicidi continui, alle stragi.
La morsa si è allentata, i tempi sono cambiati, la mafia non è stata sconfitta ma anch’essa ha mutato il suo modo di agire e di gestire il business. I palermitani hanno alzato la testa, ma davanti ai problemi, vecchi e nuovi di questa città, la nuova moda è delegare. Ma forse sarebbe più produttivo fare anche un po’ di autocritica.
Fischiare qualcuno — ieri Leoluca Orlando, oggi Roberto Lagalla, domani chissà chi — è diventato un modo per sentirci assolti. Come se la colpa di tutto fosse sempre altrove. Come se bastasse un applauso mancato o un buu durante l’abbanniata per lavare via la nostra parte di responsabilità.
Ma proviamo, almeno per una volta, a guardarci allo specchio. Non per difendere chi governa — anzi, il giudizio politico su chi amministra deve restare libero e legittimo — ma per capire se, oltre ai sindaci, non sia anche il “popolo sovrano” a dover fare i conti con sé stesso. Perché Palermo non è solo ciò che fa il Palazzo, è ciò che siamo noi tutti, ogni giorno, in ogni strada.
Fischiamo pure Lagalla, se lo riteniamo giusto. Ma fischiamo anche noi stessi quando ci ostiniamo a non fare la raccolta differenziata, perché “tanto è inutile”, “tanto non lo fa nessuno”, “tanto poi mischiano tutto”. Fischiamoci quando lasciamo sacchetti di immondizia in strada, accanto ai cassonetti, o peggio ancora quando li posiamo sul marciapiede o li lanciamo dal finestrino, come se fosse normale. Fischiamoci quando ci lamentiamo della TARI alle stelle, dimenticando che la metà dei palermitani non la paga, e che quindi l’altra metà si sobbarca anche il nostro peso.
Fischiamoci quando viviamo le regole come un fastidio personale. Quando ci rifiutiamo di andare a votare perché “tanto i politici sono tutti uguali, ladri e corrotti”. E “il mio voto non glielo do”. Come se alla fine non venisse eletto lo stesso qualcuno. Magari il peggiore. E poi ci lamentiamo di lui.
Fischiamoci quando agli incroci passiamo anche senza precedenza, quando scendiamo dall’auto per “marcare il territorio” in un parcheggio conteso, quando pensiamo che la fila sia solo per gli stupidi. Quando viviamo la città come se fosse terra di nessuno e mai bene comune.
C’è un filo sottile — ma neanche troppo — tra tutto questo e quella mentalità mafiosa che ci diciamo di odiare ma che, spesso, ci portiamo addosso senza accorgercene. Non serve l’estorsione o il pizzo per essere mafiosi dentro. Basta il sopruso quotidiano, il senso di impunità, il vivere fuori dalle regole credendo di essere più svegli degli altri. È la cultura dell’abuso, della furbizia come valore, del “ma che mi interessa”. È la Palermo che dice “tanto è sempre stato così”, che usa il vittimismo come scudo e il benaltrismo come sport: “Hanno speso soldi per questa cosa? Era meglio spenderli per quest’altra”.
Perché anche quando qualcosa funziona, scatta il riflesso condizionato del “sì, ma altrove è meglio”, “sì, ma ci vuole ben altro”, “sì, ma tanto dura poco”. Come se ogni piccolo miglioramento fosse un’offesa personale.
Allora fischiamoci, sì. Fischiamoci quando giudichiamo Palermo senza metterci mai dentro, come se fossimo turisti di passaggio e non cittadini. Fischiamoci quando pretendiamo onestà e trasparenza senza essere disposti a dare l’esempio. Fischiamoci quando facciamo la morale dal divano, mentre buttiamo la plastica nell’umido e postiamo indignazione con l’aria condizionata accesa e le tasse non pagate.
La verità è che Palermo non cambierà davvero finché non cambieremo noi. E finché non capiremo che non esistono sindaci miracolosi, né assessori taumaturghi, ma solo cittadini che devono scegliere consapevolmente, una volta per tutte, se essere parte del problema o parte della soluzione.