Dolce & arrogante: i giovani fancazzisti, i fagioli, gli stereotipi e l’occasione persa di stare zitto

98

“Le generazioni di oggi non hanno una dignità. Mi dicono che non faccio niente per loro, ma io a 18 anni ho preso una valigia di cartone e sono andato a Milano. Fate noccioline, il fagiolo badda, ricamate, come si può pretendere il progresso se nessuno fa nulla? I nostri genitori si alzavano alle 5 del mattino, oggi le campagne sono abbandonate […] non possiamo dare la colpa allo Stato, alle istituzioni, al sindaco: le istituzioni siamo noi”.

Quanti luoghi comuni, quanti stereotipi, quanta superficialità nelle parole del noto stilista di Polizzi Generosa Domenico Dolce. Una lezioncina in toni paternalistici che generalizza e denigra, che sa tanto di Marchese del Grillo: “io só io e voi nun siete un cazzo”. Con la differenza che il personaggio interpretato da Alberto Sordi era nato nobile, Domenico Dolce, invece, ha patito le difficoltà e nonostante il suo talento per fare fortuna è dovuto scappare lontano dalle sue Madonie. Ha corso un rischio ed è andata bene. Ha trovato la città giusta e le persone giuste che hanno valorizzato le sue doti sartoriali ed artistiche. Ma poi ha dimenticato o ha voluto dimenticare.

È diventato ricco e famoso ma guardacaso le sue aziende le ha costruite fuori dalla Sicilia. Chissà perché. Oggi chiede ai ragazzi di sbracciarsi, di coltivare la terra senza sapere nulla della terra perché lui non l’ha probabilmente mai zappata. Con piglio da saccente e uomo che si è fatto tutto da solo prende per il culo i suoi giovani compaesani e i siciliani tutti, come coloro che vanno via e non perdono tempo per criticare la propria terra, per diffondere al nord solo i lati negativi dell’Isola e di chi la abita. Vanno su e diventano civili.

Quello di Dolce non è uno sprone ma un’offesa. Non è un consiglio ma è arroganza. Forse pensava di prendere un applauso facile tirando fuori antichi stereotipi, ma avrebbe dovuto approfondire di più prima di giudicare. O fare qualcosa, ricco com’è, per aiutare chi da questa terra non vuole scappare. E non perché ama mamma e papà o perché qui ha la tavola apparecchiata, ma semplicemente perché è troppo facile andare via. Il vero coraggio è restare, combattere, provare a non disperdere la storia e le tradizioni, provare a salvare la propria terra dallo svuotamento, dalla desertificazione, dalla povertà, dalla disoccupazione, dall’ignoranza, dalla mafia. Lui e tanti altri hanno scelto di andare via. Per carità, nessuno li giudica, sono scelte di vita che vanno rispettate e ammirate, perché è pur sempre difficile abbandonare tutto, cambiare vita, modificare abitudini e lasciare gli affetti più cari. Ma emigrare è pur sempre una sconfitta di una terra che non sa trattenere i propri giovani, che non sa valorizzarne le doti e le qualità e che non sa garantirgli un futuro. E le colpe di tutto ció, a differenza di ció che dice Dolce, sono proprio delle Istituzioni, dello Stato, di chi ci ha gestito per decenni in combutta con chi realmente governava la Sicilia e forse tutt’ora la governa. Un cancro che ha ucciso magistrati onesti, giornalisti con la schiena dritta, poliziotti integerrimi, e che ha privato la nostra terra di quel progresso di cui Dolce si riempie la bocca. Vengano ad investire in Sicilia lui e il suo compagno, mettendo alla prova i siciliani. Che portino qui i loro atelier, le aziende, la ricchezza, il lavoro. Ma quello vero, non quello che toglie la dignità, che strema e mortifica.